L’arte di preparare i Bento

Compri un bel bento da un 100 yen store, ti emozioni tantissimo.

Arrivi a casa e butti una manciata di riso nella suihanki, la misteriosa macchina del riso, aspetti 45 minuti.

Guardi una puntata di Supernatural nel frattempo.

Piangi perché è morto qualcuno.

Asciughi le lacrime e vai giù in cucina a vedere come sta il riso.

Cerchi di dare una forma di carina al riso guardando qualche tutorial su youtube.

Imprechi un poco perché più che graziose palline sembrano dei bozzoli deformi e perché sei ancora scossa dalla puntata.

Niente, il riso non assume la forma che vuoi tu, sembra avere vita propria e alla fine rinunci e lo butti dentro al bento a suon di spatolate potentissime.

Chiudi il bento e continui a guardare Supernatural.

Di ramen e aggiornamenti vari

Cielo, mi devo ancora un po’ riprendere dalla 6×10 di Game of Thrones – un episodio mirabile – e allora, per dimenticare quello che è successo a King’s landing, scrivo.

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Sono appena terminati i miei primi 6 mesi in questa landa meravigliosa che è il Giappone e di cose ne sono successe moltissime. Prima tra tutte la decisione un po’ impulsiva di rimanere qui per altri 6 mesi, che se posso continuare a mangiare ramen tutti i giorni io sono contentissima. Non capisco perché quando si parla di cibo giapponese nel resto del mondo si menzioni solo il sushi. Totalmente sopravvalutato. Datemi il glorioso ramen di Ichiran che è delizioso, soprattutto se lo si va a mangiare alle 4 di mattina mentre stai trascinando i tuoi pesanti piedi verso casa dopo una nottata di Karaoke. Perché sì, il karaoke è ormai una parte integrante della mia vita e non è una dipendenza da cui si esce facilmente.

Le altre avventure includono una lunga serie di Gin and Tonic tragicamente versati nei modi più disparati, un paio di cadute in un fiume gelido, tante altre cadute in generale che insomma il mio equilibrio non è dei più stabili, un viaggio per il sud del Giappone con solo un biglietto di andata e due coraggiosi compagni, e tanto entusiasmo propagato per i washi tape, gli stampini e le penne colorate che costano pochissimo.

C’è anche stato un breve incontro con quelli che pensiamo fossero dei membri della Yakuza, ma lo abbiamo solo dedotto dalle dita mancanti di uno dei tizi, quindi non ne siamo sicuri.

Nel contorto panorama della mia esperienza giapponese c’è stata anche una rottura. Mi Amor non è più Mi Amor, ma per fortuna ci sono i Nomihodai e le serie tv ad offrire conforto.

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Non sono mai stata una gran fan di Cercei, ma ha le gif più appropriate quando si parla di disperazione.

Diamine, più vinoh!

 

 

 

The librarian

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Quando ero piccola avevo una certa fissazione per l’avventure. Sognavo ponti tibetani in umide e calde foreste perdute, ripide rocce da percorrere in arrampicata con il solo ausilio di un picchetto, draghi smisurati da cavalcare e  viaggi su treni dai sedili in pelle con tanto di fuga sul tetto annessa quando arrivavano i cattivi, che per qualche motivo nel mio immaginario erano sempre vestiti ninja. Non so perché, i cattivi erano sempre in tenuta da ninja o da cowboys. L’unico cowboy che mi sia mai stato simpatico era l’amico di Jackie Chan in quel film in cui dovevano salvare la principessa cinese da dei tizi vestiti di nero -e no, non erano ninja anche se erano cattivi.

Tutte le avventure che immaginavo erano diverse e sempre nuove, ma avevano in comune una cosa: iniziavano tutte in una libreria.

La fantasia.

Comunque, le librerie erano il posto in cui secondo la piccola me ogni avventura aveva inizio. Tutto nasceva da un’indizio trovato in un libro antico o da un passaggio segreto scoperto dietro uno scaffale oppure da una mappa caduta accidentalmente da un volumone rigorosamente rilegato in cuoio. E poi uno dei miei avventurieri preferiti era un archeologo che insegnava in una classe con dei mega libri alle spalle e un altro invece lavorava in una libreria piena di oggetti bizzarri e affascinanti. Come sarei potuta crescere con convinzioni diverse?

Da qualche giorno, insomma, ho iniziato il mio tirocinio in biblioteca e la cosa mi piace assai. Mi hanno relegato all’edificio che custodisce i periodici, che è molto più tranquillo rispetto alla biblioteca universitaria, dove ormai vige la legge di spotted e tutti vanno imbellettati sperando di essere commentati sulla pagina del faccialibro. Quindi io mi ritrovo con altre due ragazze in questo posto enorme con il riscaldamento a palla -grazie al cielo- che conserva sugli scaffali libri di ogni forma e dimensione e noi siamo le loro custodi. Le Custodi dei libri. Siamo le Protettrici della conoscenza, le Madri Depositarie dello scibile umano.

Certo, di fatto portiamo solo alte pile di libri da uno scaffale all’altro, io anche con una certa goffagine, ma così ma molto più figo.